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Suicidio Assistito: “Se passasse la legge, in Italia avremmo 30.000 decessi annui”

L’intervista a Pino Morandini, vicepresidente del MPVI: “Indigenti e disabili sarebbero vittime di derive eugenetiche”

Dottor Morandini, perché la «dolce morte» è anche una questione sociale?

Perché in un tempo in cui la gestione e l’organizzazione sanitaria sono spesso in affanno, anche prima della pandemia, il malato, l’anziano, il disabile e lo stesso povero tendono ad essere spersonalizzati, ad esser visti cioè più come numeri e costi che come persone. È quello che anche Papa Francesco ha più volte denunciato parlando di “cultura dello scarto”» e Benedetto XVI ha sottolineato affermando che “la questione sociale è oggi radicalmente questione antropologica” (“Spe Salvi”). In effetti, il malato non è la sua malattia, ma assai di più: i suoi affetti, le sue relazioni, in buona sostanza tutto quello che rende davvero umana la vita.

Ma questa non rischia di essere una preoccupazione eccessiva rispetto alle derive del riconoscimento del diritto del singolo?

Se la richiesta di essere uccisi fosse eretta a diritto, l’ordinamento giuridico perderebbe la sua profonda essenza, quella di proteggere chiunque dall’aggressione da parte di terzi. Non solo: a quel “diritto” corrisponderebbe il dovere del medico o di chi per lui di uccidere. Se si arrivasse a questo, il passaggio dal “diritto” di morire al “dovere di morire” sarebbe più rapido di quanto si pensi. Molti pazienti, infatti, come ampia casistica documenta (penso ai casi del francese Vincent Lambert, dei bimbi inglesi Charlie Gard, Alfie Evans, Isaiah Haastrup, Pippa Knight, Tafida Raqeeb), si sentirebbero o sarebbero considerati “inutili” o un peso per l’assistenza sanitaria, sociale, ecc. di cui avrebbero bisogno. È il “dovere” di morire come compimento dell’”utilitarismo” sociale. Il professor Umberto Veronesi, i cui indubbi meriti scientifici non discuto, era un fautore dell’eutanasia e al tempo stesso nei suoi testi parlava della morte come un “dovere biologico”, un “dovere affrontare la morte serenamente, come gli elefanti, che si ritirano per morire, o gli alberi che cadono perché hanno concluso il loro ciclo vitale”. Si ribatterà che tali parole possono essere interpretate in più modi, ma nei Paesi che hanno riconosciuto l’eutanasia l’idea che, se non si è produttivi, si è un peso inizia a farsi concreta.

Mi fa un esempio?

In Canada, dove nel 2021 le morti per eutanasia e suicidio assistito sono arrivate ad essere il 3,3% del totale dei decessi – e dove si è registrato un preoccupante aumento di oltre il 32% di quelli su richiesta, rispetto al 2020 -, si sta aprendo un vero e proprio dibattito sulla “dolce morte” per i più poveri e disagiati. Sulla rivista Journal of Medical Ethics è stato da poco pubblicato un saggio delle studiose Kayla Wiebe e Amy Mullin in cui si afferma che ““è inaccettabile costringere persone che si trovano già in circostanze sociali ingiuste ad aspettare che tali circostanze sociali migliorino”. Mi paiono parole eloquenti.

Si potrebbe però dire che un conto sono gli scritti accademici, un altro l’opinione pubblica e la realtà.

La realtà ci dice che ci sono già stati casi di persone con disabilità grave a cui è stata offerta la morte assistita prima delle cure, magari costose, di cui avevano bisogno. Quanto all’opinione pubblica, una recente indagine a cura di Research co. ha rilevato che la metà dei cittadini è favorevole all’eutanasia per chi non ha potuto accedere alle cure mediche e per le persone con disabilità. Il 28% degli interpellati consentirebbe inoltre l’eutanasia per i senzatetto o motivata da ragioni di povertà. Non è un caso che, anche negli Stati Uniti, si trovino sempre più spesso esponenti del mondo della disabilità contro la morte assistita. Hanno capito che la deriva eugenetica non è uno spettro lontano.

In Italia com’è la situazione?

Con la sentenza della Consulta sul caso Cappato (242 del 2019) si è dichiarata, da un lato, la parziale illegittimità della punizione dell’aiuto al suicidio, così com’era prevista dal nostro ordinamento, e, dall’altro, si è stabilito che non è punibile chi agevola l’esecuzione del suicidio, purché sussistano alcune condizioni: che l’aspirante suicida sia pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli; che sia tenuto in vita da trattamenti di sostengo vitale; che sia affetto da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche e psicologiche non tollerabili; che esse siano adeguatamente verificate da una struttura pubblica. La Corte ha però precisato che il coinvolgimento in un percorso di cure palliative deve costituire un “prerequisito della scelta, in seguito, di qualsiasi percorso alternativo da parte del paziente”. Il primo caso di suicidio assistito è stato quello di “Mario”, un uomo di 44 anni di Senigallia morto così nel giugno dello scorso anno, nei cui confronti peraltro il Comitato etico regionale non aveva autorizzato alcun suicidio. Siffatti limiti posti dalla Consulta sono visti come troppo restrittivi dal mondo radicale, che spinge per farli saltare.

Arriverà pure da noi all’eutanasia di Stato?

C’è da augurarsi vivamente di no. Siamo al bivio dell’umano: scegliere tra la morte facile, veicolata dall’autodeterminazione dell’ illimite propria della cultura dominante, e l’amore non facile (il vero amore non è mai facile) dell’aver cura e premura della vita fragile, connotato essenziale di una società davvero umana. Non è più procrastinabile un intervento del Parlamento di forte sostegno anche finanziario nei confronti degli informal caregivers e delle cure palliative. I primi- coniugi, compagni, parenti, amici- che offrono assistenza ai propri cari sofferenti a causa di malattie croniche, disabilità, ecc. Le seconde, previste dalla legge 38/2010, assai poco finanziata e ancor meno applicata, che consentono – attraverso Hospice, ecc. – l’accompagnamento fino all’ultimo respiro e danno dignità al morire, perché non lasciano soli e controllano il dolore fisico. Solo così non si farebbero sentire ancora più sole le migliaia di famiglie che assistono un proprio caro; solo così si eviterebbe un’ecatombe. La professoressa Assuntina Morresi, del Comitato nazionale di bioetica, ha stimato che, a regime, la morte assistita in Italia comporterebbe 30.000 decessi l’anno. Vogliamo davvero marciare verso questa tragedia? C’è un popolo che non ci sta e non da ieri si rimbocca le maniche.


Articolo de “La Verità” del 22.05.23